Energia Popolare per il PD e per l’Italia
Leggi la piattaforma politico-congressuale a sostegno di Stefano Bonaccini segretario del Partito Democratico
Leggi la piattaforma politico-congressuale a sostegno di Stefano Bonaccini segretario del Partito Democratico
La mia storia è simile a quella di tante migliaia di militanti della sinistra italiana. Sono nato e vivo tutt’ora in un paese della provincia di Modena, Campogalliano, di poco più di 8000 abitanti. Sono cresciuto in una famiglia orgogliosamente iscritta al Pci, da cui ho tratto i valori e le cose importanti della vita, che a mia volta provo a trasmettere alle mie figlie. Anche per questo ho iniziato a interessarmi alla politica quando non avevo ancora vent’anni. Debbo quindi ringraziare i miei genitori, ma anche maestri come Giorgio Baroni e Daniele Sitta: nomi che a molti non dicono nulla, ma che sono state figure fondamentali per me e per un gruppo di ragazze e ragazzi, più o meno della mia età, che grazie a loro entrarono nella sezione, poi in consiglio comunale. Mentre muovevo i primi passi nei movimenti per la pace e nella Fgci, ho anche avuto l’opportunità di fare l’assessore a Campogalliano: lo racconto per dire che quel partito – in generale i partiti in quel tempo – erano comunità dentro cui si cresceva: ai giovani veniva chiesto di fare la gavetta, ma poi c’era un’attenzione alla loro formazione, una disponibilità ad affidargli responsabilità e a misurarli sul campo. È qualcosa che credo sia necessario rimettere al centro nel Partito Democratico dei prossimi anni.
È così che per me la passione politica è diventata prestissimo anche amministrazione della cosa pubblica: ho imparato senza quasi accorgermene che rappresentare e amministrare significa stare in mezzo alle persone e ascoltare, rispondere e ascoltare ancora. Misurarsi con i problemi concreti e trovare soluzioni possibili, combattere per difendere chi non si può difendere da solo, ma soprattutto cambiare dovunque sia necessario cambiare, per dare risposte ai bisogni di chi rappresentiamo.
Se guardo alla mia storia, so che ho avuto dalla politica molto più di quanto avrei mai potuto immaginare. Per questo affronto con serenità questa sfida: non ho rendite di posizione da difendere e posso battermi con passione per le cose in cui credo.
Ci stiamo interrogando sull’identità del nostro partito ed è giusto che sia così. Io lo faccio partendo dalle donne e dagli uomini con cui ho condiviso tante battaglie, esperienze, gioie, discussioni: parlo di gente comune, come la mia famiglia, che ha deciso di spendere una parte del proprio tempo e della propria vita per i valori in cui crede. Ho una certezza: non c’è proprio nulla da rinnegare o buttare via in quel che sono e in quel che rappresentano queste persone. In quindici anni di storia del PD ripenso a tante fatiche, errori, inciampi, difficoltà. Qualche bellissima vittoria e non poche, amare sconfitte. È la nostra storia.
Spesso il Partito Democratico non è stato all’altezza delle nostre aspettative, del bisogno di giustizia sociale e cambiamento per cui lo abbiamo fondato. La sinistra non è tale se non alza lo sguardo oltre l’orizzonte e se non sogna di costruire un mondo migliore. Esiste per questo. Quando abbiamo fallito, è perché abbiamo mancato a questa promessa. O perché abbiamo trascurato quelle cose essenziali da cui sono partito: l’ascolto, la capacità di rappresentare bisogni e aspettative, la determinazione nel provare a dare risposte.
La nostra gente ha sogni ma non vive sulle nuvole. Non è la necessità di compromessi a deludere i nostri elettori, come troppo spesso sento dire. Quella è la vita, e con essa la politica. Lo sanno bene i nostri amministratori, che ogni giorno combattono contro le difficoltà e fanno i conti con i tanti problemi e con i limiti che il governo quotidiano presenta. E non è nemmeno la concretezza, anche quando difficoltosa, a demotivare iscritti, volontari, elettori. È casomai l’incapacità di tenere insieme il sogno e la risposta concreta, di dare voce e rappresentanza a chi si sente impotente o invisibile; è l’incoerenza di perdere la direzione, l’obiettivo, la ragione di fondo.
Allora questo è il tempo di riprendere il filo, di riaffermare le nostre ragioni, di ribadire il nostro obiettivo. Noi siamo la sinistra delle donne e degli uomini che si battono per la giustizia e per l’uguaglianza. E siamo una comunità perché sappiamo che solo insieme si può costruire una società dove a tutte le donne e a tutti gli uomini siano riconosciuti uguali diritti e doveri e dove tutti abbiano pari opportunità. A prescindere dalla condizione economica e sociale di partenza, dal luogo in cui si nasce, dal colore della propria pelle e dalla propria religione, dal proprio orientamento sessuale e dalla diversa abilità. È questo il mondo migliore che vogliamo costruire per noi e per i nostri figli e le nostre figlie.
Ci chiamiamo Partito Democratico perché stiamo dalla parte della democrazia, perché una società più giusta è anche una società più unita, in cui tutte e tutti possono vivere meglio e in pace, dove tutte e tutti possono dare il proprio contributo alla comunità. La democrazia non vive oggi di buona salute: è sotto attacco non solo dall’esterno, come ci dimostra l’invasione dell’Ucraina, ma anche dall’interno, come ci hanno mostrato gli assalti di Capitol Hill a Washington o del Parlamento di Brasilia. Chiamarsi Partito Democratico non è poco: significa avere questa consapevolezza e un obiettivo nobile per cui battersi. Ce lo hanno insegnato i nostri padri e le nostre madri, i nostri nonni e le nostre nonne con la Resistenza e la lotta di Liberazione al nazifascismo.
La destra soffia sulle paure e alimenta le diseguaglianze, noi invece vogliamo costruire fiducia e giustizia. La destra alza muri per dividere, noi invece vogliamo costruire ponti per unire. La destra pensa che spetti al mercato risolvere tutto, come se fosse un fine e valore in sè. Noi crediamo invece che il mercato sia uno strumento, peraltro imperfetto, mentre i valori sono il lavoro, la dignità e i diritti delle persone. E soprattutto crediamo che ci siano diritti, come quello alla salute e all’istruzione, davanti ai quali non ci deve essere distinzione tra ricco e povero. Perché chiunque ha il diritto alle migliori cure disponibili e la scuola deve tornare ad essere un ascensore sociale per cui, a prescindere dalla famiglia di provenienza, tutte e tutti abbiano la possibilità di studiare, di affermare il proprio talento, di realizzare le proprie aspirazioni. C’è poi un ulteriore paradosso: proprio quella destra che vuole delegare al mercato i diritti, pensa invece che lo Stato possa decidere come si deve nascere, vivere, amare e morire. Noi, al contrario, affermiamo che spetta ad ogni individuo compiere queste scelte, e pretendiamo che la politica rispetti e riconosca l’identità e le libere scelte di ciascuno.
Questi non sono valori che vivono in astratto. Sono concreti, sono parte della nostra comunità, sono i valori condivisi dal nostro popolo. È l’energia di questo popolo che ha portato i più grandi avanzamenti nella storia del nostro Paese e a livello internazionale: le lotte per la difesa dei lavoratori e per i diritti delle donne, per la sanità pubblica e per una scuola che sia strumento di emancipazione per tutti. E poiché è nei momenti di difficoltà che si riscoprono le proprie radici, sono convinto che le nostre radici e la nostra identità siano fatte di questa energia popolare: della passione e dell’impegno di donne e uomini che, insieme, vogliono cambiare questa società per renderla migliore.
Queste sono le ragioni che mi hanno spinto a candidarmi alla segreteria del Partito Democratico. Ho fatto un passo avanti e chiedo a voi di fare altrettanto. Perché ho imparato dalla mia terra che per andare veloci è meglio andare soli, ma per andare lontano occorre andare insieme agli altri.
Il Partito Democratico è nato per dare rappresentanza all’Italia del lavoro, della coesione sociale, dello sviluppo economico e della sostenibilità ambientale. Un grande partito di sinistra e popolare, riformista e plurale che ha ereditato le culture politiche che hanno scritto la Costituzione e su cui si è costruita la democrazia italiana nel secondo dopoguerra. Radici profonde ma sguardo lontano: lo abbiamo fondato per unire ciò che prima era diviso nella convinzione profonda che solo una grande forza politica a vocazione maggioritaria possa cambiare il Paese.
È nei momenti più difficili che si torna alle proprie radici: per questo abbiamo rivendicato la bontà del progetto e del Manifesto dei valori che ne è il fondamento: non per cristallizzare l’esistente, perché sappiamo che in questi anni l’Italia e il mondo sono profondamente cambiati e con essi dobbiamo cambiare anche noi, ma per ribadire la funzione profonda per la quale il PD lo abbiamo fondato.
Le sconfitte degli ultimi anni, fino all’epilogo del 25 settembre, ne hanno indebolito proprio la funzione: il Partito Democratico è oggi a rischio di irrilevanza, a fronte del Governo più marcatamente di destra che la l’Italia abbia conosciuto nella storia repubblicana. Rifondare il PD non è dunque un fatto che riguarda solo noi, ma la qualità stessa della democrazia del Paese; che ha bisogno di un’alternativa concreta e disponibile a questa destra. È questa la sfida che abbiamo davanti, questa la natura del Congresso che affrontiamo.
Siamo chiamati ad alzare lo sguardo e a dare risposte alle sfide principali dell’Italia: anche ora, dall’opposizione, se vogliamo essere l’alternativa credibile e possibile. Un’opposizione “governante” quindi, che non smarrisca il senso della propria funzione e non si rifugi mai nella testimonianza, che accanto ad ogni no sappia sempre indicare una controproposta migliore, che abbia la maturità di collaborare con la maggioranza laddove possibile o necessario nell’interesse del Paese.
Nell’immediato, significa ricomporre la propria fisionomia: usciamo dall’autoflagellazione quotidiana che viviamo dal 25 settembre scorso. Torniamo a svolgere il nostro compito in rapporto coi bisogni reali dell’Italia, anche dall’opposizione. Con una nuova agenda politica e una nuova classe dirigente immediatamente in campo.
Infine, nella consapevolezza che il percorso non sarà né semplice né breve, terremo aperta e daremo maggior forza alla natura costituente di questa fase, che non si esaurisce certo col Congresso: perché ciò che deve tornare ed entrare nel PD non è una classe dirigente che se n’era andata, ma un popolo che non abbiamo più saputo rappresentare. 7 milioni di elettori in 15 anni ci hanno abbandonato, rivolgendosi altrove o rifugiandosi nell’astensionismo: l’unica alleanza che siamo chiamati a costruire oggi è con loro, con le cittadine e con i cittadini. Perché non ci sarà alcuna alternativa possibile e credibile di centrosinistra senza un Partito Democratico più grande e robusto. E perché noi torneremo al governo del Paese solo quando lo chiederanno gli elettori col proprio voto.
Vocazione maggioritaria non significa autosufficienza o isolamento. Significa viceversa rimettere il PD al centro di un’alternativa possibile.
Il PD serve all’Italia anche nella misura in cui sa rispondere a due esigenze essenziali per il tempo che viviamo e che ci aspetta: rivolgersi a tutti gli italiani con una proposta pienamente nazionale e ancorare il nostro Paese alla casa comune europea. In un tempo di fratture crescenti, noi vogliamo unire il Paese. Ad un’Italia che corre a troppe velocità diverse e che ha visto aprirsi fratture crescenti tra territori forti e deboli, tra condizioni economiche e sociali della cittadinanza, tra donne e uomini, tra generazioni, la destra risponde in modo sbagliato. E a questa risposta siamo chiamati ad offrirne una migliore.
La prima risposta sbagliata della destra è quella di contrapporre i territori forti a quelli deboli, contrabbandando il principio dell’autonomia sancito dalla Costituzione con quello dell’egoismo territoriale. Noi crediamo, viceversa, che l’autonomia sia un valore nella misura in cui avvicina le decisioni ai cittadini, semplifica la vita delle persone e delle imprese, migliora la qualità delle risposte ai bisogni del territorio. Al centralismo crescente di questi anni rispondiamo con la voce dei nostri amministratori sul territorio: vogliamo meno burocrazia e maggiori risorse per le autonomie locali perché non ci sono sviluppo economico possibile, servizi sociali ed educativi efficaci, investimenti e qualità urbana migliori se non si mettono le amministrazioni locali nelle condizioni di programmare bene e gestire in modo efficiente. Ma, ancor prima, non c’è sviluppo possibile se non all’interno di un progetto nazionale che faccia crescere di più e meglio i territori in difficoltà. Il Mezzogiorno, anzitutto, dove tutte le fratture e le contraddizioni si concentrano con maggior intensità. Ma lo stesso vale per le aree interne, per i territori rurali e montani, per le periferie e i centri minori. Autonomie forti in un Paese forte significa avere un progetto nazionale e strumenti coerenti per realizzarlo. Fu così quando si concepì un grande sistema nazionale di istruzione pubblica e così quando si si diede vita al Servizio Sanitario Nazionale; oggi questi pilastri sociali vivono attraverso le autonomie scolastiche (ancora troppo deboli) e la gestione dei sistemi regionali (esangui dopo il Covid e ora abbandonati dal Governo). L’errore di contrapporre il centro alla periferia produce solo un indebolimento dei sistemi nazionali e della gestione territoriale. Un Paese forte, che vive grazie ad autonomie altrettanto forti, deve viceversa riaffermare e potenziare l’universalità dei due sistemi e dei diritti essenziali ad essi sottesi; deve sostenere e valorizzare la capacità di gestione territoriale per corrispondere al meglio ai bisogni formativi e di cura dei cittadini. Per farlo serve un grande partito nazionale che si rivolga all’Italia e a tutti gli italiani.
Il secondo errore macroscopico che commette la destra è quello di non vedere o edulcorare le diseguaglianze economiche e sociali che si sono aperte e si stanno dilatando nella nostra società. Da decenni l’Italia cresce poco e ridistribuisce quindi poca ricchezza. Ma spesso non si considerano a sufficienza altri due aspetti, negativi e concatenati: da un lato accade che la poca ricchezza prodotta viene anche redistribuita male e la forbice sociale si amplia, a causa di salari che non crescono e servizi pubblici indeboliti; dall’altro, una cattiva distribuzione della (poca) ricchezza prodotta diventa a sua volta un fattore di crisi, perché riduce i consumi e la mobilità sociale di una platea sempre più ampia di persone. Noi crediamo viceversa che per crescere di più e meglio occorra non solo rafforzare le politiche per lo sviluppo (a partire da quelle industriali e dagli investimenti pubblici e privati), ma anche combattere e superare le diseguaglianze economiche e sociali, quale precondizione per la sostenibilità sociale e ambientale. Per questo è indispensabile sostenere i redditi da lavoro e combattere la precarietà, così come rafforzare e qualificare i grandi pilastri della protezione sociale.
La terza questione attiene ai divari di genere, con conseguenze negative sul piano economico, sociale e della stessa natalità. In Italia le donne studiano di più ma poi trovano meno opportunità di lavoro e hanno più difficoltà di carriera rispetto agli uomini; a parità di posti occupati lavorano però meno ore dei colleghi maschi; e a parità di ore lavorate guadagnano infine di meno. In compenso, è sulle donne che si scarica la gran parte del lavoro di cura. L’effetto è presto detto: negli ultimi decenni l’Italia è cresciuta meno degli altri paesi europei, avendo un tasso di occupazione generale più basso a causa della sottoccupazione femminile. E l’invecchiamento della popolazione è cresciuto di pari passo con la contrazione della natalità, perché la conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita è risultata sempre più difficile. Anche a questo problema la destra offre una risposta profondamente sbagliata, immaginando che le famiglie faranno più figli e l’Italia starà meglio se le politiche del Governo consentiranno alle donne di non lavorare per assolvere ai compiti di cura. Una visione arcaica e inaccettabile, anzitutto, perché discrimina le donne e le relega al ruolo di madri e di custodi del focolare domestico. Ma anche una visione miope e contraddittoria, perché determina un impoverimento generale per il Paese sul piano economico e sociale. Viceversa, noi crediamo che donne e uomini debbano avere pari opportunità sostanziali e sia loro diritto e dovere concorrere parimenti allo sviluppo economico e sociale del Paese. Crediamo altresì che solo nella condivisione del lavoro e del lavoro di cura e nello sviluppo dei servizi educativi e di protezione sociale si determinino condizioni economiche e sociali favorevoli per il sostegno alla natalità. Per questo è indispensabile sostenere l’emancipazione economica e sociale delle donne.
La destra non contempla mai nella propria proposta e nelle proprie politiche la dimensione del futuro dell’Italia. I problemi sono sempre quelli immediati e le soluzioni sono di conseguenza pensate unicamente sul presente: che si parli di ambiente o di fisco, di lavoro o pensioni, il respiro della destra è sempre brevissimo. Ma un Paese che si ferma al presente è, per definizione, senza futuro. Per questo l’Italia non è un Paese per giovani. E anche noi in passato abbiamo mancato su questa linea cruciale. È la politica italiana, nella sua fragilità, ad aver accorciato lo sguardo. Le ragazze e i ragazzi faticano a trovare risposte e ad intravvederne per il proprio avvenire: per questo spesso scappano all’estero; per questo cresce la protesta per un sistema scolastico e di formazione che non riesce ad offrire sbocchi soddisfacenti; per questo si sentono abbandonati alla precarietà e tagliati fuori da qualsiasi ragionamento riguardi la previdenza. Serve quindi restituire respiro alla politica e alle politiche: se vogliamo che il Paese cresca di più e meglio occorre rimettere al centro le generazioni più giovani con progetti che abbiano al cuore il loro futuro.
Infine, l’errore strategico più grave della destra italiana è quello del sovranismo: immaginare cioè che l’interesse nazionale del nostro Paese possa affermarsi al di fuori e contro l’interesse comune nell’Unione Europea. È contro l’Europa che, dall’opposizione, avevano concepito una politica estera in sintonia con la Russia di Putin; solo la drammatica aggressione dell’Ucraina ha provveduto a smascherare questa scelta sbagliata, dimostrando che non può esistere una efficace politica estera e di difesa nazionale al di fuori dell’Unione europea. È contro l’Europa che, dall’opposizione, avevano stretto un asse preferenziale con le amministrazioni di Trump e Bolsonaro. Solo l’assalto eversivo a Capitol Hill e poi a Brasilia li hanno costretti ad ammettere la natura regressiva ed antidemocratica di quelle opzioni. Ed è sempre contro l’Europa che si è eretto l’asse politico interno all’Unione con i cosiddetti paesi di Visegrad, con l’Ungheria di Orban, con la destra francese di Le Pen; ma, oggi che al governo la destra è chiamata a gestire i principali problemi dell’agenda europea – dai profughi alla crisi energetica, dalla gestione del Next Generation EU alla revisione del Patto di Stabilità e Crescita – si trova costretta a confrontare il proprio nazionalismo con quello altrui. Un cortocircuito che rende l’Italia più sola e impotente. È una visione sbagliata a cui contrapponiamo la nostra, radicalmente alternativa: l’interesse nazionale italiano vive e può veder riconosciute le proprie ragioni solo dentro un’Unione europea federale più forte, coesa e solidale, in linea con gli ideali del Manifesto di Ventotene. Non c’è questione rilevante – dalla pace all’ambiente, dai migranti alla gestione del debito – che possa essere risolta in solitudine e contro il comune interesse europeo. E l’Italia non può autorelegarsi al ruolo di ospite scomodo in UE, ma deve svolgere fino in fondo il proprio ruolo di Paese co-fondatore per migliorare e rafforzare un’Europa ancora imperfetta perché insufficiente.
Questi errori e queste contraddizioni della destra possono essere disvelati e combattuti dal PD: oggi dall’opposizione e domani nella competizione per tornare al governo. Ma per farlo serve un partito più forte e credibile, in grado di superare i propri errori e le proprie contraddizioni. E in grado soprattutto di avanzare una proposta più credibile per l’Italia.
È questo il PD che serve e noi, adesso, dobbiamo costruirlo.
Con la sconfitta elettorale del 25 settembre scorso si è chiuso un lungo ciclo politico, durato oltre 10 anni, nel quale abbiamo perso o “non vinto” in tutte le tornate politiche. Al tempo stesso, e quasi ininterrottamente, il PD si è ritrovato al Governo senza un mandato elettorale, con un peso specifico calante e una difficoltà crescente ad incidere e a determinare non solo l’agenda generale, ma anche a segnare punti apprezzabili di avanzamento rispetto ai propri obiettivi. Ci siamo fatti carico di responsabilità nazionali – un grande partito nazionale ha anche questo compito – senza riuscire però a corrispondere alle aspettative di una parte crescente dei nostri elettori. E la come le alleanze, anche la responsabilità non può mai diventare la ragione sociale di un partito.
Le ultime elezioni politiche hanno segnato una oggettiva discontinuità: la destra ha riportato una vittoria netta, resa ancor più forte da un centrosinistra profondamente diviso. Può quindi contare oggi su un mandato popolare e su numeri in Parlamento che non lasciano alibi per assolvere alla funzione di governo. E a noi quella di opposizione, con la necessità di costruire una nuova agenda politica e, con essa, una nuova classe dirigente. È fisiologico e giusto che le due cose stiano insieme, visto che in questi anni, pur con assetti via via cambiati, abbiamo avuto una certa continuità nelle persone che si sono alternate alla guida del partito e del governo.
Una classe dirigente nuova, da cui e con cui ripartire, non si improvvisa. E noi abbiamo bisogno di una forte innovazione, non di improvvisazione. Il PD dispone di molte donne e molti uomini capaci, a tutti i livelli: una parte di questi siede oggi nel Parlamento nazionale e in quello europeo, una gran parte opera invece nei territori, con responsabilità di guida del partito locale e delle amministrazioni comunali, provinciali e regionali. Persone che hanno mandato avanti i circoli anche nei momenti più difficili – e questo è certamente uno dei più difficili – e che spesso hanno saputo vincere nelle competizioni locali anche quando il vento politico nazionale spirava in direzione opposta. Hanno vinto o recuperato consenso in forza di una credibilità personale e di gruppo, mettendo in campo esperienze e proposte che hanno conquistato voti al PD locale mentre li perdevamo a livello nazionale.
Il merito deve tornare ad essere il primo criterio di selezione della nostra classe dirigente e allora bisogna ripartire da qui: dalle ragazze e dai ragazzi, dalle donne e dagli uomini che hanno dimostrato sul campo di saper fare la differenza. Da chi può ora mettere a disposizione del partito nazionale quel patrimonio di esperienze, competenze, credibilità e fiducia costruito dal basso.
Per queste ragioni il nuovo gruppo dirigente attingerà a piene mani dal territorio: abbiamo un vivaio invidiabile da qualsiasi altra forza politica, è ora di farlo scendere in partita perché ci sia una nuova leva di titolari.
Da qui una considerazione più generale. Uno dei punti di forza del Partito Democratico è proprio il radicamento territoriale. Eppure negli anni abbiamo passato più tempo a enfatizzare le nostre fragilità che non ad investire su ciò in cui siamo più bravi e forti. Col risultato che anche il radicamento territoriale si è indebolito: i nostri amministratori sono sempre meno supportati dal partito locale, gli iscritti e i volontari appaiono scoraggiati perché non si sentono coinvolti nei processi decisionali. Serve un cambiamento, anche qui. E abbiamo tutti gli strumenti per invertire questa tendenza, insieme. Per ricostruire l’organizzazione del partito, per ridare senso e vigore alla militanza, per dare valore ai nostri eletti nei comuni, per costruire insieme un rapporto più solido e costante fra il partito nazionale e le sue strutture locali. Investire su una nuova classe dirigente significa anche rivolgersi ai più giovani, che pur nelle difficoltà risultano fra i maggiori sostenitori del Partito Democratico e delle sue posizioni nella società. Per avvicinarsi alla militanza è indispensabile che tornino ad essere protagonisti delle scelte della nostra comunità. Non può esserci una vera energia popolare senza la forza e le idee delle nuove generazioni. Per questo dobbiamo investire sulla formazione politica permanente, che accompagni la crescita delle democratiche e dei democratici.
Il PD che vogliamo vive nella società. Sta nei luoghi in cui la gente vive, dove studia e lavora, dove si cura e si diverte. È un partito che costruisce relazioni e collaborazioni con l’associazionismo, i sindacati e il Terzo settore.
Il PD che vogliamo è un partito che sostiene le battaglie giuste anche fuori dalle istituzioni, organizzando le persone e collaborando con le altre organizzazioni impegnate nel territorio.
Il PD che vogliamo sta dalla parte giusta. Con chi lotta contro le mafie e i sistemi criminali, contro ogni forma di sfruttamento e di sopraffazione. Ed è per questo che l’impegno politico non può non essere, prima di ogni cosa, impegno antimafia e per la legalità.
Non esiste democrazia vitale senza partiti vitali, aperti e rappresentativi dei bisogni reali della società. Non esiste democrazia vitale senza istituzioni rappresentative efficaci, in grado di rispondere ai nuovi bisogni della società e di governare la modernità. La qualità della democrazia repubblicana dipenderà dalla nostra capacità di riformare le istituzioni per renderle più forti e inclusive, di ridurre il distacco dei cittadini dalla partecipazione elettorale, di restituire autorevolezza ai partiti dopo decenni di ubriacatura antipolitica.
La partecipazione è diminuita in molti aspetti della vita democratica, ed è certamente un trend globale, non solo italiano, ma rimane particolarmente preoccupante da noi in Italia. A partire dagli anni ottanta, la percentuale dei votanti è andata calando fino ad arrivare lo scorso settembre sotto il 64%. Una persona su tre non va a votare perché delusa o disinteressata. Pure i maggiori sindacati, nei primi due decenni del nuovo millennio hanno subito una perdita di iscritti che supera i 300.000 lavoratori. L’emorragia più grave però è la nostra: avevamo oltre 800 mila iscritti nel 2008, circa 370 mila nel 2018, solo poco più di 50 mila prima del Congresso. Tristemente, abbiamo perso il nostro primato di primo partito in Italia insieme al primato di partito con più militanti.
Già questi pochi dati evidenziano l’urgenza con cui bisogna rilanciare la partecipazione democratica, ma è necessaria una riflessione in più. Abbiamo consentito, come partito e come Paese, che il risentimento verso una classe dirigente spesso non all’altezza del proprio compito finisse per minare la nostra democrazia. Invece di riformare la politica e i partiti per il meglio abbiamo tagliato e compromesso aspetti importanti della nostra architettura democratica. Anzichè riportare all’efficienza le istituzioni e alla sobrietà i costi della politica, si è tagliata la rappresentanza a tutti i livelli, svuotato di funzioni e risorse le province, abolito circoscrizioni, negato le risorse al funzionamento della politica. Come partito dobbiamo essere capaci di difendere l’investimento nella democrazia, in tutte le sue forme, come fonte primaria di partecipazione e premessa di buon funzionamento dell’apparato pubblico. Ciò comporta anche rilanciare il processo democratico con i corpi intermedi, le rappresentanze sindacali e imprenditoriali, la società civile. Il loro coinvolgimento nella definizione e monitoraggio delle politiche pubbliche è uno degli aspetti chiave della trasparenza, efficacia e stabilità della politica e delle istituzioni democratiche.
La riforma del sistema politico e delle istituzioni è condizione indispensabile per il loro rafforzamento, anche di fronte al rischio di una loro perdita di prestigio e autorevolezza. Istituzioni deboli portano a una politica debole; ma una sinistra di governo che vuole rimuovere gli ostacoli economici e sociali alla libertà e all’uguaglianza ha invece bisogno di una politica forte. La forza delle istituzioni va realizzata nell’equilibrio tra capacità di rappresentanza e di decisione, e tra organi istituzionali diversi, in sistemi moderni di pesi e contrappesi. Se l’equilibrio viene a mancare c’è il rischio che la forza delle istituzioni si trasformi in arbitrio delle persone che si trovano a ricoprire cariche pubbliche, sfuggendo ai vincoli del diritto. Forza ed equilibrio vanno realizzate in un quadro di comprensibilità e di trasparenza, senza le quali non si ha un’effettiva responsabilità verso i cittadini. E se la destra riduce il tema delle riforme istituzionali al solo presidenzialismo, usato come grimaldello per indebolire la preziosa funzione di equilibrio del Quirinale, il PD si impegnerà invece ad affermare la possibilità e la necessità di un equilibrato programma di riforma istituzionale: bilanciando la riduzione del numero dei parlamentari con una legge elettorale che restituisca ai cittadini la prerogativa di scegliere i propri rappresentanti e favorisca al tempo stesso la stabilità di governo; rafforzando le prerogative di effettivo indirizzo e controllo del Parlamento, insieme ad una razionalizzazione del procedimento legislativo che riporti l’attuale debordante decretazione d’urgenza nel suo circoscritto alveo costituzionale; introducendo norme che limitino le crisi di governo e favoriscano i governi di legislatura sulla base delle esperienze delle democrazie parlamentari europee in relazione a fiducia, sfiducia ed elezioni anticipate. Al contempo il PD si impegna a favorire le nuove forme di democrazia partecipativa, innovando le procedure di proposta popolare della legislazione e referendarie, nonché rimuovendo gli ostacoli legati al digital divide.
Il Partito Democratico sostiene da sempre il valore dell’autonomia iscritto nella Costituzione, laddove correttamente declinato come strumento di rafforzamento dell’unità nazionale, di consolidamento della coesione sociale e di attuazione del principio di sussidiarietà. Per questo proponiamo una riforma dei livelli di governo che valorizzi l’autonomia regionale e locale in una logica cooperativa, attraverso il rafforzamento del sistema delle Conferenze e delle diverse forme di intesa tra Stato, Regioni ed Enti locali, contemplando anche la possibile introduzione di una Camera delle autonomie; e al tempo stesso proponiamo di controbilanciare una maggiore autonomia con una clausola di supremazia statale, sul modello di quanto già previsto in alcuni Stati federali, che assicuri la preminenza dell’interessenazionale laddove necessario. E riteniamo imprescindibile definire in Parlamento, con l’accordo del sistema delle autonomie, la preliminare definizione dei livelli essenziali delle prestazioni insieme ai relativi costi standard prima della sottoscrizione di intese con le singole Regioni in materia di autonomia differenziata.
Quello che possiamo fare fin da subito però, è rinnovare la democrazia interna, e con essa la partecipazione, del nostro partito. Serve un “partito piattaforma”: moderno nel suo assetto organizzativo, potente nella profondità e intensità della partecipazione degli iscritti, agile al vertice ed energico alla base.
La guerra di aggressione scatenata dal regime di Putin contro l’Ucraina è uno spartiacque storico per tutta la comunità internazionale e per l’Europa. È in gioco la capacità della comunità internazionale di difendere le ragioni del diritto, della pace e della libertà, contro l’arroganza della forza e contro il ritorno della logica della sovranità limitata e delle sfere di influenza, da cui l’Europa si era liberata con la fine della Guerra Fredda.
Il Partito Democratico ha scelto da subito di sostenere con l’aiuto umanitario, economico e militare l’Ucraina, una libera democrazia invasa da una superpotenza imperiale. E continuerà a incalzare il governo per difendere una popolazione altrimenti soccombente e il principio di non aggressione su cui si basa l’ordine internazionale.
Ma il nostro obiettivo è e deve restare la pace. Una pace giusta. Per questo sosterremo ogni iniziativa volta a favorire la fine del conflitto e ribadiamo che solo la diplomazia potrà costruire una pace duratura, anche attraverso un nuovo assetto di sicurezza dell’Europa che coinvolga una Russia finalmente capace di rispettare i principi di legalità e cooperazione internazionale.
L’Unione Europea ha dovuto affrontare una serie di gravi sconvolgimenti negli ultimi anni, a partire dall’esplosione della crisi climatica, passando per la pandemia e le sue conseguenze sociali ed economiche fino alla guerra nel cuore dell’Europa.
Sono stati anni in cui l’Europa ha dovuto ripensare sé stessa e trovare una nuova unità politica per reagire alle sfide che si è trovata di fronte, ma non è stata finora capace di darsi un nuovo assetto istituzionale e di condivisione di sovranità adeguato ai problemi, nonostante scelte lungimiranti come il Green Deal europeo, il Piano di Ripresa e la campagna vaccinale.
Per questo serve un’Europa più forte: le elezioni europee del 2024 saranno non solo il banco di prova decisivo per il PD sul piano politico, dopo la sconfitta del 2022, ma un momento cruciale in cui rilanciare il progetto di un’Europa sociale e federale nel solco del Manifesto di Ventotene, vicina ai cittadini, capace di decidere, proteggere, promuovere il benessere di tutte e tutti.
La rivoluzione apportata dal Next Generation EU è stata dirompente sia per la transizione ecologica che per la trasformazione digitale, ma ha rappresentato anche un fatto inedito in termini di mutualità del debito e di iniziativa comunitaria. Dobbiamo impegnarci non solo perché i nostri cittadini ne siano pienamente consapevoli, ma affinché una destra che l’ha osteggiata in tutti modi sia ora incalzata a portarla avanti con il PNRR in Italia. Solo un successo di questi progetti potrà dare la spinta necessaria a realizzare una compiuta unità politica dell’Europa.
La condivisione dei debiti e dei rischi in nome di una nuova solidarietà, il potenziamento massiccio delle risorse di bilancio dell’Unione, la nuova agenda sociale con il salario minimo, la tutela dei lavoratori delle piattaforme, la trasparenza e parità salariale, la Garanzia per l’Infanzia, il nuovo Erasmus Plus, la discussione sulla riforma del Patto di stabilità e crescita in favore di politiche di sostenibilità sociale e ambientale: sono tutte iniziative che testimoniano i passi avanti compiuti dall’Unione grazie al cartello delle forze progressiste, di cui i Socialisti e Democratici sono il perno, e con l’impegno fondamentale di un leader politico europeo quale è stato il nostro presidente del Parlamento europeo, David Sassoli.
Ma ancora non basta, perché le grandi sfide della giustizia sociale e climatica, nonchè il necessario ruolo sullo scacchiere mondiale, richiedono un ulteriore salto di qualità: per questo serve un mandato costituente per il nuovo Parlamento Europeo, proseguendo il lavoro della Conferenza sul Futuro dell’Europa.
Il PD rilancia il suo impegno per promuovere un più efficace processo decisionale attraverso il superamento della logica dell’unanimità e dei veti incrociati, con il rafforzamento dei meccanismi democratici e di trasparenza delle istituzioni comuni, anche implementando appieno le liste elettorali transnazionali. Noi vogliamo maggiori competenze comunitarie in ambito economico e sociale e per le “transizioni giuste”, con il consolidamento di una sovranità fiscale, con debito comune e risorse proprie, nel solco di Next Generation EU. E crediamo sia giunto il tempo di una vera politica estera e di difesa comune, in grado di dare una voce forte all’Europa nel mondo come attore di pace.
La stessa sfida energetica, estremamente attuale in questi mesi, ha richiesto e richiede un altro passo avanti nell’integrazione per assicurare approvvigionamenti, diversificazione, accelerazione delle rinnovabili e una diversa regolazione del mercato in materia. Ancora una volta, come europei, siamo chiamati a scegliere se operare ciascuno per proprio conto, scatenando una competizione dei bisogni e delle convenienze di parte in un gioco a somma negativa, o se lavorare insieme.
Noi pensiamo sia il tempo di avanzare per un’Europa pienamente federale. E crediamo che, laddove dovessero prevalere logiche ostruzionistiche, sia necessario partire da quei Paesi disponibili a costruire insieme. Noi vogliamo che l’Italia sia alla testa di questo cambiamento, non a rimorchio dei sovranisti.
Se il sogno è europeo, abbiamo bisogno di un grande partito che lo rappresenti, oltre i confini nazionali. Se molte delle scelte che riguardano la quotidianità, le opportunità e i bisogni di milioni di cittadini sono assunte dalle istituzioni europee, le formazioni politiche europee non possono restare rintanate nei confini di stati nazionali, sempre più deboli e impotenti.
Per questo occorre un salto di qualità anche per la casa dei socialisti e democratici europei, da costruire più forte e più unita insieme agli altri partiti progressisti, per progettare e costruire l’Europa dei prossimi decenni.
Il PSE deve evolvere in un vero partito transnazionale, rappresentativo di istanze europee unitarie nelle sedi istituzionali e nel contesto globale. Il PD deve contribuire a rendere concreta l’esperienza di adesione diretta dei nostri iscritti al Partito Socialista Europeo e alla famiglia dei Socialisti e Democratici attraverso la proposta di elezione diretta dei vertici di partito e per la selezione dei candidati per gli incarichi apicali, a partire dal candidato dei progressisti alla Presidenza della Commissione Europea, in attesa di una sua elezione diretta da parte dei cittadini.
All’impegno nel PSE si aggiunge la positiva esperienza della Alleanza Progressista, promossa ormai da una decina di anni dal PD e da altre forze socialiste e progressiste, che sta permettendo un dialogo e una iniziativa comune tra forze progressiste e democratiche dei cinque continenti e deve diventare sempre più attiva e visibile.
L’unità politica mostrata dall’Unione europea nei passaggi chiave ricordati, seppur faticosamente raggiunta, dà ragione alla nostra idea di patriottismo europeista, che guarda all’Europa come spazio di pace e libertà contro i fantasmi dei nazionalismi e delle guerre che per secoli hanno segnato la storia del nostro continente. L’Europa si pone in questo modo come attore globale per la pace e la convivenza fra i popoli, nel rispetto del diritto internazionale e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Ed è solo per questa strada che i Paesi dell’Unione possono svolgere un ruolo importante sullo scenario globale, integrando la dimensione di sicurezza euroatlantica nella NATO con un più forte ed efficace protagonismo dell’Unione europea come attore di stabilità globale e garante del multilateralismo, senza dimenticare l’impegno per la non-proliferazione e per il progressivo disarmo nucleare.
Il PD promuove un’idea dell’interesse nazionale italiano opposta a quella isolazionista e sovranista dalla destra: per questo ci batteremo sempre per rafforzare il ruolo dell’Italia nelle sedi multilaterali di cui è parte. Perché siamo un grande Paese europeo che nella storia repubblicana ha tratto sempre enormi benefici dalla capacità di costruire alleanze vaste e politiche condivise; mentre la destra sta rischia di danneggiare proprio l’interesse nazionale che invoca, isolandola.
L’Italia è al centro di molte aree e i nostri interessi non si difendono solo a Bruxelles. Per questo abbiamo bisogno di una politica estera e di sicurezza bene integrate tra loro e tali da metterci in grado di dialogare attivamente con tutti i paesi del Mediterraneo allargato e dei Balcani, sempre in coordinamento con i nostri alleati europei e atlantici. Non molti Paesi possono vantare il patrimonio di attenzione al dialogo del nostro. E un’Italia presente, attiva e ascoltata in alcune tra le aree più complesse e conflittuali del mondo rappresenta un elemento di stabilità e di pace. L’attenzione al fianco orienale necessaria a causa della guerra in Ucraina non deve andare a discapito di un rinnovato impegno di dialogo e sviluppo nel Mediterraneo allargato e con l’Africa.
La presenza dell’Italia nel mondo, soprattutto nei paesi più poveri e fragili, deve essere sempre più improntata ai valori dei diritti umani, della sostenibilità, della giustizia sociale. Tutto questo si può fare con gli strumenti adeguati, a partire dall’agenda per lo sviluppo sostenibile e dalla cooperazione internazionale. L’obiettivo di destinare lo 0,70% del Pil agli aiuti allo sviluppo deve essere perseguito con costanza, così come la consapevolezza dell’agenda per lo sviluppo sostenibile. Il PD si farà parte attiva delle campagne per sostenere e diffondere questi elementi qualificanti della nostra politica estera.
Il Partito Democratico si impegnerà ad ogni livello affinché la politica estera italiana sia sempre ispirata alla centralità dei diritti umani, promuovendo anche nelle relazioni internazionali i principi inviolabili della dignità e della vita della persona, rimuovendo le cause che possono pregiudicarne lo sviluppo e contrastando ogni discriminazione e violenza per motivi di appartenenze razziali e sociali, di schieramento politico e culturale, di religione, di genere e di orientamento sessuale. La cultura dei diritti umani è infatti universalistica e non può essere confusa con una specifica attribuzione geografica o politica, fondandosi sull’idea che vi sia un’unica e condivisa appartenenza al genere umano di ogni persona i cui diritti fondamentali sono da considerare inalienabili ad ogni latitudine e sotto qualsiasi regime politico. Per questo la cultura dei diritti umani rappresenta uno dei fondamenti di quella spinta unitaria all’internazionalizzazione di culture e politiche che sottende la nascita delle Nazioni Unite e che sempre più costituisce strumento di costruzione attiva di pace tra le nazioni e di difesa da contrapposizioni razziali, violenze e guerra.
Il Partito Democratico sosterrà il rafforzamento della democrazia sia come criterio fondamentale della politica estera italiana, sia come parte delle nostre attività politiche; attraverso strumenti di cooperazione con la società civile e in particolare con gruppi di donne e giovani come elementi essenziali di cambiamento; attraverso il monitoraggio elettorale; con la difesa dalle interferenze esterne attraverso un’adeguata politica di istruzione, informazione solida e cybersecurity; promuovendo la diplomazia del cambiamento attraverso un potenziamento degli strumenti di soft power come quello culturale, e allo stesso tempo attraverso aiuti, investimenti, costruzione delle istituzioni e di classi dirigenti delle società in transizione.
Da sempre il nostro partito dedica un’attenzione particolare agli italiani nel mondo. E riteniamo questa connessione tanto essenziale per loro quanto per i cittadini che vivono in patria. Per questa ragione siamo impegnati nella risoluzione dei problemi che emergono, a partire dalla risoluzione dell’annosa questione dei servizi consolari. Allo stesso tempo siamo impegnati per la semplificazione e la sburocratizzazione delle procedure per il riconoscimento della cittadinanza. L’Aire va ripensato, adeguandolo alle nuove mobilità che sono sempre meno stanziali rispetto al passato; e serve sperimentare, soprattutto nelle circoscrizioni consolari coi territori più vasti, forme originali di servizi di prossimità a favore dei cittadini italiani.
Se vogliamo dare cittadinanza piena a queste comunità, non possiamo non costruire una fiscalità che sia equiparata e giusta. In questo caso, abbiamo già predisposto insieme all’Anci una conferenza di servizi con tutti i comuni d’Italia per individuare un metodo di calcolo univoco, da Nord a Sud.
Dobbiamo lavorare per costruire un Paese che garantisca eque opportunità di genere e generazionali: non per limitare la mobilità, che è un valore arricchente, bensì per evitare che si trasformi, come accade oggi, in emorragia di talenti senza ritorno. Contemporaneamente dobbiamo allora lavorare in modo strutturale per costruire una mobilità “con ritorno”, che porti valore aggiunto e nuove competenze, spingendo per premiare le start-up, le idee, i progetti imprenditoriali che abbiano al loro centro gli obiettivi di sviluppo sostenibile del Global Compact (SDG’s). Dobbiamo investire sul Turismo delle Radici quale volano per far riscoprire i luoghi del margine ed attrarre investitori e nuovi cittadini in grado di riabitarli.
Con una mobilità lavorativa, in parte frutto di scelta, per lo più obbligata, della comunità italiana nel mondo e in Europa, è urgente il riconoscimento automatico, garantito e diretto, all’interno dello spazio europeo, dei titoli professionali e formativi conseguiti in Italia. Un riconoscimento che, oltre a semplificare l’integrazione lavorativa e professionale di chi lascia l’Italia, offre una preziosa opportunità di crescita che tiene conto delle esperienze pregresse maturate nel Paese d’origine. Per la mobilità di ritorno, a chi rientra in Italia dopo anni di lavoro e studio all’estero, va riconosciuta e garantita la medesima premialità, sia professionale che fiscale.
Anche gli italiani e le italiane nel mondo hanno sperimentato, soprattutto negli ultimi anni segnati dalla pandemia, un modo altro di vivere nel Paese di migrazione il rapporto con il proprio lavoro e/o studio. Molte e molti hanno scelto, avendone la possibilità, di rientrare in Italia continuando a svolgere la propria attività in modalità nuove, da remoto e con la flessibilità dello smart working. C’è bisogno anche per loro, dunque, di aggiornare il modello, inserendo tutele adeguate e una regolamentazione che rispetti garanzie e diritti lavorativi comunitari.
Le nuove caratteristiche della mobilità, infine, richiedono necessariamente una profonda revisione della rappresentanza delle comunità italiane e italo-discendenti all’estero. La rappresentanza deve adeguarsi alle novità con una profonda riforma, così da intercettare le nuove esigenze della migrazione, elaborando efficaci e pronte risposte. I Comites, quale primo e fondamentale livello di questa rappresentanza, devono essere equiparati ai consigli comunali italiani nel ruolo, nelle risorse e negli strumenti d’intervento.
L’Italia vive con crescente frequenza eventi climatici estremi, che la colpiscono in modo particolarmente allarmante. Tra i paesi europei, il nostro è quello maggiormente esposto ai drammatici eventi di carattere idrogeologico. Essi sono acuiti dai profondi mutamenti climatici subiti dal pianeta: alluvioni, siccità, ondate di calore, innalzamento del livello del mare, aumento del cuneo salino. Tutto ciò determina lutti e insostenibili danni a persone, animali, beni; talvolta ad interi ecosistemi.
La tragedia della Marmolada non è un evento isolato: in un articolo appena pubblicato su Nature Climate Change, emerge come la neve sulle nostre Alpi stia diminuendo fino a diventare un fenomeno sempre di fragile e di breve durata: nell’ultimo secolo la durata del manto nevoso si è accorciata di oltre un mese.
Il cambiamento climatico non si riferisce solamente al riscaldamento globale: stanno avvenendo cambiamenti diffusi nell’atmosfera, nelle terre emerse, negli oceani e nei ghiacci. Il mutamento osservato negli ultimi 100 anni è il risultato delle attività umane e i cambiamenti climatici causati dall’uomo aumentano la probabilità di assistere ad un maggior numero di eventi estremi contemporaneamente che possono avere un impatto sulla natura e sull’uomo ancora maggiore di quello che questi fenomeni causerebbero singolarmente: ad esempio, la siccità unita a caldo estremo aumenta il rischio di incendi boschivi e la conseguente morte del bestiame, oltre che la perdita dei raccolti.
Il tema ambientale deve diventare uno dei capisaldi dell’identità del Partito Democratico, e il nostro compito è quello di guardare non solo al destino delle prossime elezioni, ma a quello delle prossime generazioni. Farci portatori della voce di milioni di ragazze e ragazzi che in Italia e in tutto il mondo chiedono alla politica e alle istituzioni una risposta all’altezza della sfida incombente. Anzi, nostro compito è portare queste ragazze e questi ragazzi all’interno della politica e delle istituzioni affinché la loro voce diventi il cambiamento che serve. A questo serve il PD.
Qualunque sia l’obiettivo economico, sociale, politico, che una comunità decida oggi di prefissarsi, non lo si può conseguire se non alla luce della consapevolezza di ciò che sta accadendo al nostro ambiente. Perché i cambiamenti climatici rischiando di mettere a repentaglio la tenuta sociale del Paese, dell’Europa, del Mondo.
La questione ambientale è una questione sociale, perché ha ripercussioni soprattutto sui più fragili: anziani, bambini, persone che vivono ai margini. L’estate scorsa la mortalità in conseguenza delle temperature oltre media è cresciuta di oltre il 20% e a farne le spese sono sempre le persone più anziane o quelle che non possono permettersi un condizionatore per rinfrescare l’ambiente domestico.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha evidenziato l’incidenza del cambiamento climatico sugli elementi sociali ed ambientali che hanno effetti diretti sulla salute. Aria pulita, acqua potabile, cibo in quantità sufficienti, sicurezza e condizioni igieniche degli alloggi: tutti diritti fondamentali messi in pericolo da inondazioni, ondate di calore, incendi, siccità. Per fare un esempio, le previsioni indicano un aumento di 250.000 morti all’anno nel mondo fra il 2030 e il 2050 a causa della scarsità di acqua dovuta al cambiamento climatico.
Secondo i dati del CNR e del Dipartimento per la protezione civile, nel nostro Paese il dissesto idrogeologico causa danni quattro volte superiori al costo degli interventi di prevenzione, evidentemente del tutto insufficienti. La spesa a tutela dell’ambiente a livello mondiale rappresenta inoltre solo il 5% della spesa militare (Fonti: Oxfam, SIPRI). E la crisi sanitaria e l’emergenza bellica che stiamo attraversando mostrano una volta di più il ruolo cruciale dell’energia nella nostra società industriale e tecnologica. Questa crisi energetica ha colpito in maniera più evidente i Paesi che sono fortemente dipendenti dall’esterno per gli approvvigionamenti. L’Italia è fra questi, avendo fatto registrare una dipendenza dall’estero attorno al 74 % (dati Eurostat 2021) dei propri fabbisogni.
Ma dalla risoluzione delle criticità legate al clima e al pianeta possiamo trarre e indicare opportunità preziose per generare sviluppo, benessere collettivo, lavoro di qualità.
Ecco alcune delle nostre proposte:
Da che mondo è mondo, il lavoro o è emancipazione o è sfruttamento. E da che mondo è mondo, le donne e gli uomini di centrosinistra si battono per la prima cosa e contro la seconda. La domanda da cui partire, oggi come ieri, è la stessa: che cosa possiamo fare perché il lavoro sia emancipazione e non sfruttamento?
Noi proponiamo un nuovo contratto sociale: per favorire uno sviluppo sostenuto e sostenibile, sia sul piano ambientale sia sul piano sociale, e per rivoluzionare il lavoro e i tempi di vita, allargando le tutele e le opportunità di tutte e di tutti. Serve una politica per la crescita e serve una politica per il lavoro che abbiano al centro la qualità; servono salari più alti e un fisco più giusto, diritti universali per tutte le lavoratrici e i lavoratori, dipendenti o autonomi che siano, e serve un riconoscimento del lavoro di cura; serve uno stato sociale che protegga e rafforzi le persone e le comunità, disegnato sui bisogni di oggi, sull’esigenza di non lasciare nessuno da solo di fronte ai cambiamenti imposti dalle transizioni ecologica, tecnologica e demografica. Per farlo, con e per le persone, occorrerà tutta l’energia popolare di cui saremo capaci.
La crescita economica non è una condizione sufficiente per creare una piena e buona occupazione, né per avere uno sviluppo sostenibile sul piano sociale e ambientale. Ma resta una condizione necessaria. Dobbiamo uscire dalla contrapposizione ideologica tra chi pensa che bastino gli investimenti privati e chi gli investimenti pubblici per creare dignità del lavoro e prosperità diffusa. Non è così. Serve un’idea di qualità del lavoro. E servono politiche industriali, della ricerca, della formazione e del welfare coerenti. Anche il progresso tecnologico non è neutrale: ce n’è un tipo che riduce il lavoro e uno che lo valorizza. L’intervento pubblico deve favorire il secondo.
Questa sfida va raccolta soprattutto a livello dell’Unione Europea, che deve rispondere alla sfida anche geopolitica posta dalla nuova stagione di politiche industriali e tecnologiche di Stati Uniti e Cina. Ma l’Italia può e deve fare di più per salvaguardare il proprio ruolo di secondo Paese manifatturiero d’Europa. In una fase di “globalizzazione corta” come quella che si sta aprendo, i nostri distretti industriali e le nostre filiere possono tornare a essere un volano di sviluppo e un vantaggio competitivo per il nostro Paese. Occorre parlare alle imprese in maniera credibile, scalzando il messaggio della destra che propone un “liberi tutti” a botte di evasione, deroghe e lavoro precario. Come? Ricominciando a investire su infrastrutture distrettuali quali, ad esempio, le comunità energetiche, la formazione, la gestione dell’acqua e dell’economia circolare. Investendo su questi beni pubblici distrettuali torneremo a dare risposte al nostro sistema d’imprese e a creare ricchezza sui nostri territori. Non per guardare indietro, a un modello di sviluppo ormai superato, ma al contrario per sintonizzarsi prima di altri sulla nuova globalizzazione che si sta prefigurando. Occorre quindi che le risorse del PNRR e quelle del nuovo settennato dei fondi di coesione siano coerentemente ed efficacemente impiegate in questa direzione – anzitutto per sostenere la trasformazione digitale e la transizione ecologica – sia sul fronte degli investimenti pubblici e privati, sia su quello dell’adeguamento delle competenze. Industria 4.0, formazione, incentivi al reshoring e infrastrutture produttive per i nostri distretti: sono queste le leve da attivare per una politica di sviluppo dove territorio, impresa e lavoro si tengono per mano.
L’innovazione tecnologica, nella doppia accezione di sviluppo e di adozione, rappresenta infatti uno dei fattori competitivi indispensabili per la crescita sostenibile d’impresa che, in combinazione con altri elementi quali l’adozione di modelli organizzativi più flessibili, nonché lo sviluppo di competenze specialistiche e manageriali, può stimolare la crescita della produttività sia a livello di impresa, sia per il Paese nel suo complesso. Industria 4.0 ha aiutato in questo processo verso il cambiamento dei processi produttivi e l’utilizzo di nuove tecnologie, ma la si può ulteriormente rafforzare, potenziando gli investimenti per la ricerca, la digitalizzazione e l’automazione, favorendo processi di consolidamento degli operatori attivi lungo la filiera delle tecnologie digitali avanzate, puntando sul trasferimento tecnologico che ha il ruolo cruciale di trasmettere al mercato e alla società i risultati derivanti dalla ricerca scientifica e tecnologica, insieme alle competenze associate. Gli investimenti privati dovranno beneficiare della realizzazione delle riforme enunciate nel PNRR e degli investimenti in esso previsti, ma occorre sorvegliare su questo perché la destra non ha una strategia in proposito. E occorre andare anche oltre. Perché i principali disincentivi all’investimento privato in Italia restano la complessità e i livelli di tassazione, l’eccesso di burocrazia e la lentezza della giustizia. Rispetto alla burocrazia, occorre agire su due piani. Il primo riguarda la semplificazione normativa: esistono circa 600 iter burocratici che devono essere semplificati. Ma la riduzione della burocrazia non può essere guidata dai burocrati. Occorre costituire una commissione ristretta che includa soprattutto rappresentanti delle imprese e delle professioni per formulare soluzioni sostanziali. Il secondo riguarda il funzionamento della pubblica amministrazione: per le nuove competenze necessarie occorre investire nella formazione del personale e reclutare giovani, così come occorre rafforzare una gestione manageriale diffusa in tutti gli ambiti, con una migliore definizione di obiettivi, una buona misurazione dei risultati ottenuti e una valutazione dei dirigenti pubblici che non sia uniforme.
In Italia esiste da decenni una cruciale questione salariale: la distribuzione del reddito si è inceppata e, in termini reali, chi lavora guadagna oggi meno di dieci, venti e trent’anni fa. È banale dire che i salari non salgono se non c’è crescita economica e della produttività, ma in Italia questa ovvietà è spesso usata come alibi per competere solo sul costo del lavoro; sia nel pubblico sia nel privato, è risultato più comodo ridurre i salari che aumentare gli investimenti. Ora che con le risorse del PNRR è possibile rilanciare investimenti pubblici e privati, ogni alibi deve essere rimosso e l’aumento dei salari deve diventare un obiettivo di politica economica. A maggior ragione oggi, di fronte al rialzo del costo della vita: perché l’inflazione è una tassa ingiusta su lavoratori e pensionati, soprattutto quelli con redditi bassi. La questione salariale è per noi la priorità ed è da qui che vogliamo partire.
Per rimettere al centro e aggredire questo tema non esiste un’unica soluzione. Non possiamo pensare di risolvere tutto con la sola leva fiscale: le tasse servono, ma non sono tutto. Se il lavoro è debole, non c’è riduzione delle tasse che possa avvantaggiarlo. Serve invece un patto, uno scambio tra politica e parti sociali dove a mettere sul piatto qualcosa siano tutti: la politica, con riforme del fisco, del welfare e della formazione); i sindacati e le associazioni di categoria, con regole su rappresentanza e contrattazione, anche decentrata; le imprese, con adeguati aumenti salariali, concentrati soprattutto sui redditi bassi o laddove gli utili crescono. La questione salariale ha bisogno di interventi lungo tre direttrici.
Disoccupati, giovani in cerca di prima occupazione, lavoratori e lavoratrici a rischio di perdere il proprio posto di fronte ai tumultuosi cambiamenti economici del tempo in cui viviamo: sono loro i veri dimenticati dalle politiche di welfare del nostro Paese. Il reddito di inclusione prima e il reddito di cittadinanza poi hanno colmato una lacuna storica: l’assenza di una misura universale di contrasto alla povertà. Ma non tutti i disoccupati sono poveri e se perdi un lavoro lo Stato non deve aspettare che tu perda anche la casa per aiutarti (visto che le misure contro la povertà sono giustamente sottoposte alla prova dei mezzi). Serve allora una forte garanzia del reddito agganciata a servizi personalizzati di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro; una rivoluzione del nostro sistema di sussidi di disoccupazione che inglobi quelli esistenti (Naspi, Dis-coll, Iscro), li allarghi e ne rovesci la logica: non più sussidi legati a condizionalità (che nessuno controlla), ma un percorso intensivo di servizi alla persona legato a una forte garanzia del reddito a fronte del rischio disoccupazione.
Il reddito di formazione è fatto di due ingredienti: un percorso personalizzato di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro e una forte garanzia del reddito per chi accetta di mettersi in gioco seguendo quel percorso (fino a 1.500 euro al mese, più un sostegno alla mobilità nel caso che sia richiesto di spostarsi, per una durata legata agli anni di contribuzione o all’età). Così si rovescia la logica attuale delle politiche di sostegno a chi cerca lavoro: non più sussidi con condizionalità, ma un percorso fatto di bilancio e certificazione delle competenze, orientamento, formazione e sostegno alla mobilità. Sul fronte del sostegno economico, il reddito di formazione non prevede la forte riduzione mensile della Naspi, fornisce una copertura più lunga agli over 50 ed è più facile da ricevere per i giovani in cerca di prima occupazione, strutturandosi come un vero e proprio reddito di inserimento.
Soprattutto, il reddito di formazione fa leva sulla costruzione di un nuovo pilastro dello stato sociale, che assicuri dai rischi legati alle trasformazioni che imprese, lavoratori e lavoratrici affronteranno sull’onda della transizione digitale e della rivoluzione verde: un sistema di formazione permanente di massa; un sistema diffuso e di qualità per rendere quella alla formazione un diritto soggettivo realmente esigibile; un’infrastruttura di luoghi – ben finanziati e soprattutto valutati e monitorati nei risultati che producono – in cui gli individui ricevano servizi personalizzati di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro. Con una presa in carico pubblica e digitale, ma con servizi erogati ispirandosi ai principi di sussidiarietà orizzontale e verticale, facendo leva su comuni, università, istituti scolastici, centri di formazione, terzo settore. La grande sfida dello stato sociale di oggi è la formazione permanente di massa, nello stesso modo in cui lo sono l’istruzione obbligatoria, la sanità pubblica e tutte quelle riforme che hanno profondamente cambiato il nostro contratto sociale.
Un Paese dove ogni otto ore si muore sul luogo di lavoro o recandosi al lavoro non è un Paese civile. La sicurezza del lavoro è un bene pubblico. E servono risorse e apparati pubblici per tutelarlo. Anche le imprese serie hanno bisogno dell’aiuto e della collaborazione di professionisti pubblici della sicurezza. Senza questa collaborazione c’è solo il Far West dei diritti, che piace alla destra e alle imprese irresponsabili, il cui costo ricade anzitutto sulle condizioni di lavoro e sulla vita dei lavoratori più deboli e precari; ma a pagarne un prezzo in termini di concorrenza sleale è anche la maggioranza delle imprese che investono sulla sicurezza; infine ci rimette la collettività nel suo insieme: in termini di costo, di competizione al ribasso sulla pelle delle persone, di conflittualità e sociale.
Occorre assicurarsi allora che la destra prosegua nel lavoro che noi abbiamo avviato nella precedente legislatura: assunzioni per aumentare il numero degli ispettori, pagarli di più, migliorare le dotazioni di cui hanno bisogno per operare, assumere nuove competenze che permettano di fare ispezioni con l’aiuto della tecnologia. E dobbiamo fermare il tentativo della destra di tornare indietro rispetto al disegno di un’unica agenzia ispettiva. Ma le ispezioni, per quanto importanti, da sole, non bastano. Servono investimenti sulla formazione e sulla prevenzione, in collaborazione con imprese e sindacati; forti incentivi fiscali per l’adozione di tecnologie che aumentino la sicurezza sul lavoro; meccanismi premiali negli appalti pubblici. Ogni euro investito sulla sicurezza del lavoro è un investimento sulla dignità delle persone e un risparmio oggettivo sui costi che l’insicurezza comporta.
Non può esserci crescita economica o equità nel mondo del lavoro e nella società se non rimettiamo al centro il lavoro delle donne. E per le donne, in Italia, il lavoro resta un problema. Lo è in termini di quantità, con un tasso di occupazione femminile che non arriva al 50%: quasi 15 in punti in meno della media europea, 20 punti in meno di quella maschile. E lo è in termini di qualità: in termini di reddito (gender gap), di quantità di ore lavorate (il cosiddetto part time involontario), di carriera. Dietro a questi divari risiedono fattori culturali che incidono per esempio sull’orientamento scolastico (sono ancora una stretta minoranza le ragazze che scelgono le materie STEM), così come i congedi e l’organizzazione del lavoro, o la carenza di servizi per il sostegno alla genitorialità e alla cura.
In particolare, è l’iniqua distribuzione del tempo tra lavoro retribuito e non retribuito (cioè speso in attività di cura familiare) a marcare una differenza netta tra uomini e donne. Il divario salariale e occupazionale è in gran parte dovuto alla scelta di avere figli, e questo in un Paese dove proprio la denatalità rappresenta l’ombra più pesante sul futuro e la sostenibilità sociale. Per questo serve una rivoluzione nei tempi di vita e di lavoro, uno strumento per la condivisione della genitorialità tra padri e madri, leva essenziale per l’emancipazione femminile e per il sostegno alla natalità. Dopo l’assegno unico e universale fortemente voluto dal PD nella scorsa legislatura, il passaggio da politiche di conciliazione a politiche di condivisione, oltre a favorire la libertà delle donne di lavorare e quella degli uomini di vivere la paternità, può segnare un altro passo nel contrasto all’inverno demografico.
Per questi motivi, il PD sosterrà in parlamento e nel Paese, anche con un disegno di legge d’iniziativa popolare, la proposta di “genitori alla pari” presentata al Senato nella scorsa legislatura e tra le proposte più votate nelle nostre Agorà democratiche. Si tratta di una riforma (o meglio, di una rivoluzione) “di sistema” che include:
È il momento di aggredire e superare uno squilibrio che pesa sempre sulle donne. È il momento di avere genitori alla pari in famiglia e al lavoro.
Nel solco della legge 81/2017 fortemente voluta dal PD (il cosiddetto Jobs act del lavoro autonomo), riprenderemo il percorso per abbattere il muro che separa lavoro dipendente e lavoro autonomo, allargando tutele e opportunità a tutto il mondo del lavoro. Il nostro obiettivo è il rafforzamento di un nucleo di diritti fondamentali comuni a lavoro dipendente e autonomo. Nell’immediato, vogliamo dare riposte al vasto mondo di professionisti e partite Iva con una serie di tutele, partendo da una riforma fiscale che favorisca l’equità orizzontale, anche attraverso l’equiparazione delle detrazioni per lavoro dipendente e autonomo. Ma non solo. Proponiamo subito altre misure concrete per rafforzare l’equo compenso, l’equità previdenziale, la formazione 4.0 e il sostegno sugli investimenti in beni strumentali nell’ambito del programma Transizione 4.0, il sostegno ai processi di aggregazione in società tra professionisti.
Ferma restando la necessità di riconoscere, sostenere e valorizzare il lavoro autonomo, è essenziale favorire la stabilizzazione dell’occupazione e regolare qualsiasi rapporto di lavoro a fronte delle nuove dinamiche di subordinazione imposte da progresso tecnologico e algoritmi. Il lavoro stabile vale di più e deve costare meno di quello precario. Proponiamo un taglio strutturale del cuneo contributivo almeno del 10% per tutti e del 30% per i giovani in ingresso nel mercato del lavoro. Vogliamo superare i tirocini extracurricolari per riformare e sostenere l’apprendistato come canale privilegiato di ingresso nel lavoro dipendente. Vogliamo rafforzare la stretta su finte partite Iva e collaborazioni iniziata dai nostri governi. È giusto che il lavoro temporaneo sia strettamente regolato – in primis dalla contrattazione collettiva – e costi di più di quello stabile. In particolare, proponiamo di introdurre una buonuscita compensatoria (come avviene in altri paesi europei) che l’impresa dovrà riconoscere a un lavoratore che non viene stabilizzato, in maniera proporzionale alla durata cumulata dei contratti temporanei che ha avuto. Le esigenze di flessibilità organizzativa o produttiva non debbono mai essere confuse col reiterato impiego della stessa persona per eludere i percorsi di stabilizzazione.
La flessibilità che serve per un sistema di qualità è quella dentro l’impresa, da sostenere attraverso la formazione e la contrattazione, non quella che si scarica sulle persone in termini di precarietà.
Un nuovo contratto sociale non può prescindere da un welfare che sia equo tra e dentro generazioni diverse. Occorre risolvere, una volta per tutte, il tema della riforma pensionistica: perché l’accesso ad un’adeguata pensione al termine della vita lavorativa è fondamentale per il rafforzamento del lavoro e della società. E perché le persone non possono vivere nell’incertezza del proprio destino di anno in anno. Di solito la politica parla di pensioni cercando risorse (da tagliare) o cercando voti (da blandire con promesse demagogiche). Noi vogliamo altro: equità e giustizia sociale. Nonostante gli interventi che si sono succeduti negli ultimi decenni, il nostro sistema previdenziale non è equo tra generazioni (visto che i costi della sua sostenibilità sono stati scaricati solo sui più giovani) e non è equo all’interno delle generazioni (visto che i più fragili non hanno tutele di fronte a un’età pensionabile che aumenta anche se non hai un lavoro o quel lavoro diventa gravoso). Per questo proponiamo di dare piena attuazione alla cosiddetta “fase due” dell’accordo del 2016 tra governo e Cgil-Cisl-Uil. Quell’accordo partiva dal riconoscimento che non tutti i lavori sono uguali. E che la giustizia sociale richiede misure differenziate.
Dopo mirabolanti promesse demagogiche quando era all’opposizione e in campagna elettorale, arrivata alla prova del governo la destra sta rendendo le pensioni più ingiuste con misure estemporanee e lo snaturamento di opzione donna.
Noi proponiamo di dare equità e stabilità alla previdenza, agendo su alcuni fronti:
La riforma previdenziale deve essere accompagnata da una riforma sulla non autosufficienza, per rafforzare la garanzia del reddito e dei servizi in una presa in carico multidimensionale delle persone con disabilità o anziani non autosufficienti. Un nuovo welfare della cura che tolga il peso dell’assistenza dalle sole spalle delle famiglie e spesso delle donne. Anni di distacco dal proprio progetto di vita per dedicare tempo, energia, risorse verso un familiare o una persona amica che ha disabilità o non ha più le autonomie per fronteggiare la vita quotidiana: è tempo che tutto ciò sia riconosciuto e sostenuto. Dobbiamo dare ai caregiver diritto di cittadinanza in questo Paese, partendo dalle migliori esperienze di livello europeo e regionale, per introdurre specifiche tutele, anche in ambito previdenziale, per l’inserimento e il reinserimento nel mercato del lavoro, o il completamento di percorsi di studio e formazione.
Il nuovo Stato sociale che vogliamo costruire è impensabile senza il protagonismo del Terzo settore. Il Terzo settore tiene insieme persone, comunità, territori. È un elemento chiave per la coesione sociale del Paese: non solo nelle fasi di emergenza, ma nella miriade di servizi che associazioni, cooperative, enti di volontariato svolgono ogni giorno. La politica non ha difficoltà a tributare questo riconoscimento nei suoi convegni e nelle sue campagne elettorali, ma poi spesso se ne dimentica nei suoi provvedimenti.
Il PD riconosce invece pienamente questo patrimonio e, laddove opera nelle amministrazioni locali, costruisce spesso alleanze e collaborazioni con questa energia comunitaria, per ampliare le risposte sociali, assistenziali, culturali e ricreative per e con i cittadini. Ma il Terzo settore è anche un fatto economico rilevante: produce il 5% del Pil italiano e occupa oltre un milione di persone, con servizi sempre più specifici, innovativi e professionali. Non può essere trattato come un fornitore di mano d’opera a basso costo – anche perché, dalla qualità del lavoro, delle retribuzioni e dei diritti del terzo settore dipende non solo una quota crescente della popolazione, ma anche la qualità dei servizi. Eppure così avviene con bandi e convenzioni dove si integrano organici pubblici con personale di cooperative, chiamato a svolgere lo stesso lavoro ma venendo pagato molto di meno. Nei budget dei servizi che vengono messi a gara dalle amministrazioni pubbliche, i costi generali di struttura e il lavoro a essi connesso, quando riconosciuti, sono risicatissimi. Le retribuzioni riconosciute agli operatori sociali sono estremamente basse, configurando spesso forme di lavoro povero.
Prima ancora di allargare la rete dei nostri servizi di welfare valorizzando il ruolo del Terzo settore in ogni intervento legislativo – cosa che va indubbiamente fatta – dobbiamo offrire un nuovo patto agli operatori del settore. Serve un nuovo Ccnl per le lavoratrici e i lavoratori del Terzo settore che non rientrano in quello delle cooperative sociali, e serve un adeguamento di quest’ultimo per aumentare di almeno il 30% le retribuzioni attualmente previste per le figure specializzate. Ma affinché ciò sia possibile, serve un intervento legislativo opportunamente finanziato che – a parità di bandi e convenzioni – preveda che il costo della manodopera non possa essere oggetto di ribasso, né inferiore al livello retributivo di riferimento per i dipendenti pubblici che svolgono lo stesso servizio o servizi analoghi; prevedendo contestualmente che i costi generali di struttura non siano inferiori al 15%. Se davvero vogliamo costruire lo Stato sociale del post-pandemia, partiamo da questo patto, mettiamoci le risorse finanziarie che servono, passiamo dalle parole ai fatti.
Nella nostra idea di società i principi di legalità, giustizia sociale ed equità si tengono per mano. E, come ci ha autorevolmente ricordato il Presidente Mattarella, “la Repubblica è nel senso civico di chi paga le imposte perché questo serve a far funzionare l’Italia e quindi al bene comune”. La destra italiana ha una visione opposta, confermata dagli ennesimi condoni introdotti un minuto dopo essersi insediata al governo, l’ostilità ai pagamenti elettronici a favore del contante e dell’evasione, la scelta della flat tax per detassare chi guadagna di più a discapito dei redditi medi e bassi.
Per noi non ci sono dubbi: per favorire l’uguaglianza serve un’unica imposta realmente progressiva su tutti i redditi, superando i troppi regimi speciali esistenti, favorendo i pagamenti elettronici, chiedendo di pagare anche alle multinazionali. Proponiamo una riforma complessiva della tassazione che riduca la tassazione del lavoro, soprattutto – di nuovo – se a tempo indeterminato, e aumenti quella sulla rendita e sulla ricchezza; che favorisca chi investe; che semplifichi il sistema tributario, anche con la riduzione del numero e della frequenza degli adempimenti; che – di nuovo – introduca un’equità orizzontale effettiva tra lavoratori dipendenti e autonomi; che riduca l’evasione fiscale. In particolare:
Nelle recenti esperienze di governo, il PD è riuscito a realizzare alcune misure importanti, capaci di estendere ed espandere i diritti. Pensiamo all’assegno unico per i figli o alle unioni civili, per esempio. Non siamo però ancora universalmente percepiti come la forza politica che protegge e ha a cuore i diritti delle persone, come il partito che lotta per l’uguaglianza. Questo deve cambiare. Divisioni interne e mancanza di chiarezza su alcuni obiettivi qualificanti ci hanno reso meno forti nella battaglia per le conquiste e ci hanno fatto mancare la connessione diretta verso chi non si è sentito rappresentato. E troppo spesso, anche quando abbiamo fatto cose giuste per la gente, le abbiamo fatte senza la gente.
Ripartiamo da qui, anche nel nostro ruolo di opposizione. Indicando anzitutto obiettivi e priorità costruiti con le persone che vogliamo rappresentare, rivolgendoci a tutta la società e respingendo gli attacchi che la destra sta già portando avanti contro la legalità (coi condoni), il lavoro (prevedendo nuovi strumenti di precarietà), la giustizia sociale (dalla flat tax ai tagli alla previdenza), le donne (da opzione donna alla 194), le minoranze (dai migranti all’identità di genere).
Ad una destra che divide e compromette le libertà personali e i diritti sociali dobbiamo contrapporre una visione della società e un’agenda politica che metta al centro l’inclusione, la promozione della cultura e la giustizia sociale come motore di progresso per il benessere di tutti.
L’universalità dei diritti è la nostra identità e il nostro valore fondante: il diritto alla salute e all’istruzione non possono conoscere distinzione di ceto sociale, reddito, territorio di residenza e provenienza.
La scuola e la formazione devono tornare ad essere quell’ascensore sociale che, assicurando reali pari opportunità, permetta a tutte le bambine e a tutti i bambini di veder riconosciuti e valorizzati i propri talenti, a prescindere dalle condizioni economiche e sociali della famiglia di provenienza, e dal luogo in cui si nasce e si vive.
Nel nostro Paese invece un numero elevato di ragazzi non studia, non si forma e non lavora, (23,1%); la dispersione scolastica è piuttosto alta (12,7% rispetto al 9,9% della media europea), con livelli ben maggiori che si concentrano al Sud, tra gli alunni stranieri e tra i giovani che provengono da contesti più fragili dal punto di vista economico e sociale. Disuguaglianze che la crisi pandemica ed economica ha allargato, aumentando le distanze anche tra i ragazzi.
Per ricucire queste fratture e colmare questi ritardi, a fronte delle enormi possibilità che il PNRR offre, occorre affrontare alcune questioni imprescindibili. Avendo al centro due obiettivi strategici e complementari, che riguardano il sistema Paese nel suo insieme e ogni singolo bambino e bambina, ragazza e ragazzo: il contrasto della dispersione scolastica e il successo formativo. Per avere cittadine e cittadini sempre più forti e consapevoli, per una maggiore inclusione sociale e un’occupazione di qualità.
Ecco alcune delle nostre proposte:
Il 23 dicembre del 1978 nasceva il Servizio sanitario nazionale su iniziativa di Tina Anselmi, prima donna ministra della Repubblica. Con la legge 883/1978 si superava il sistema delle mutue a favore di un servizio universalistico rivolto a tutti i cittadini. Fu un fatto epocale, un enorme balzo in avanti in materia di diritti sociali e nella costruzione del welfare del nostro Paese.
La salute è un diritto universale davanti al quale non può esserci distinzione tra ricco e povero. E l’articolo 32 della nostra Costituzione dice benissimo di cosa stiamo parlando: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Quindi la persona, il singolo, ma anche la comunità nel suo insieme. Lo abbiamo visto bene nella pandemia cosa questo significhi: da un lato la necessità di curare le persone ammalate, dall’altro lo sforzo collettivo di contenere la diffusione del virus, prima con le misure restrittive e poi con i vaccini, sempre per rafforzare la prevenzione, producendo uno sforzo mai visto delle nostre strutture ospedaliere e territoriali e dei professionisti impiegati. Ricordarlo oggi è tanto più importante, nel momento in cui siamo davanti alla prima legge di bilancio del governo della destra che sacrifica proprio la sanità e perché accompagnano questa scelta altri provvedimenti a favore di medici no-vax. Nella pandemia, la politica si è dovuta assumere le proprie responsabilità, come è giusto che sia; ma lo ha fatto guidata dalla scienza, come è altrettanto giusto che sia. Mentre la destra ha rincorso posizioni antiscientifiche e contrastato le mascherine, il distanziamento, i vaccini.
Oggi, visto che il Covid non è sconfitto, anziché premiare i pochi operatori che hanno fatto la scelta no-vax, dobbiamo tutti ribadire il nostro ringraziamento e il nostro sostegno a medici, infermieri, OSS, tecnici di laboratorio, operatori sanitari ospedalieri e del territorio che hanno lavorato giorno e notte per difendere la salute delle persone e della comunità, come dice la Costituzione. Molti di loro, per curare noi, si sono ammalati. Molti sono morti.
La politica, quando sceglie, dice da che parte sta. E il PD sta dalla loro parte e dalla parte del Sistema Sanitario Nazionale.
La pandemia ci ha ricordato il valore essenziale della sanità pubblica e universalistica: per troppi anni la politica aveva disinvestito su questo servizio cruciale. Lo abbiamo visto rispetto al troppo personale mancante, ai servizi territoriali troppo fragili rispetto alla rete ospedaliera, alla difficoltà che registriamo oggi a chiudere a pareggio i bilanci delle aziende sanitarie e, di converso, a recuperare le lunghe lista d’attesa che si sono accumulate rispetto alle visite specialistiche e alla chirurgia.
Quando il servizio non riesce a rispondere in tempi adeguati al bisogno di salute di tutte le persone, allora si determinano due effetti perversi: anzitutto si allungano le liste d’attesa e viene così meno il requisito dell’adeguatezza dei tempi delle prestazioni sanitarie, che possono essere un fattore cruciale nella prevenzione, nella cura e nella tempestiva presa in carico del cittadino; il secondo è che i cittadini che se lo possono permettere si rivolgono al privato, mentre gli altri restano indietro, generando così quell’ingiustizia e disparità tra le persone proprio per superare le quali il SSN è nato. Ci aspetta una battaglia politica e culturale, in Parlamento e nel Paese, mobilitando tutte le forze di cui la società dispone. La grande questione di fondo è se vogliamo preservare e rilanciare il servizio sanitario nazionale pubblico e universalistico rispetto ad una destra che intende colpire la sanità pubblica a favore di quella privata.
Alcune delle nostre proposte:
Basta case senza persone e persone senza casa. Soprattutto nelle grandi città, meta di tanti studenti e lavoratori fuorisede, nonché del turismo di breve durata, diventa sempre più complicato poter trovare un’abitazione adeguata a prezzi sostenibili. La spirale dei prezzi di acquisto e di affitto si muove in piena controtendenza rispetto all’andamento dei redditi, mettendo in crisi un diritto essenziale di cittadinanza per tante famiglie e costituendo una barriera d’accesso insormontabile per i giovani. È proprio nell’accesso negato al diritto alla casa che si infrangono i progetti di emancipazione, di costruzione di una famiglia e di fare figli delle nuove generazioni.
Come detto, le stesse piattaforme di hosting, che non pagano nemmeno le tasse nel nostro Paese, stanno trasformando un “business familiare” in centrifughe che spiazzano il mercato immobiliare e svuotano i centri storici, allontanando gli stessi ceti medio dai quartieri che un tempo avremmo definitivo “residenziali”, fatti su misure per le famiglie.
È indispensabile che il nostro Paese riprenda una politica per la casa abbandonata da troppi decenni.
Ecco alcune delle nostre proposte:
Il PD concepisce la cultura come un valore fondamentale e un diritto universale.
La promozione e la diffusione della cultura – al centro così come nelle periferie e presso ogni ceto sociale – costituisce anche un asse portante della nostra idea di società e comunità, attraverso cui costruire politiche di inclusione e giustizia sociale.
La cultura, in tutte le sue forme ed espressioni, è anche un servizio essenziale. Per questo è prioritario recuperare, oltre a quelli sociali, anche i divari territoriali in termini di presenza delle istituzioni e dei servizi culturali tra Nord e Sud, centro e periferie.
Il più importante patrimonio culturale italiano è formato dai suoi artisti, dai suoi operatori culturali, dai suoi intellettuali: noi vogliamo che siano i protagonisti nella vita del Paese e riteniamo essenziale, come PD, avere con questo mondo un rapporto costante di confronto.
Infine, ma non da ultimo, la cultura è anche un ambito di attività sociali e un settore economico, dove lavorano artisti e gli operatori culturali, che come tali vanno riconosciuti, tutelati e valorizzati.
Anche lo sport è un diritto sociale: promuovere e sostenere l’attività fisica e corretti e sani stili di vita significa prendersi cura di un bisogno primario delle persone. Per questo è essenziale che l’attività motoria torni nelle scuole di ogni ordine e grado, come ci siamo impegnati a fare nella scorsa legislatura; così come è imprescindibile che i comuni, anche i più piccoli e periferici, dispongano di una rete di spazi e strutture dedicate allo sport.
È altrettanto essenziale sostenere l’accesso al diritto allo sport anche per le ragazze e i ragazzi che vivono in condizioni di povertà o di disagio sociale: perché lo sport è un collante sociale che costruisce comunità, che avvicina le persone in una relazione positiva. E lo sport deve essere inclusione e lotta ad ogni discriminazione.
La politica nazionale considera troppo spesso lo sport un ambito secondario o ancillare, trascurandone il valore aggiunto sia in termini sociali che economici. Ma nello sport si costruiscono anche lavoro, professionalità, economia reale. E le potenzialità che le manifestazioni nazionali hanno travalicano spesso i confini nazionali, proiettando nel mondo il nostro Paese con le sue eccellenze e i suoi talenti.
Ecco alcune delle nostre proposte:
Per noi i diritti civili, politici e sociali stanno sempre insieme: si tengono e si rafforzano vicendevolmente al pari delle libertà. Proprio le società che vedono tutelate e valorizzate le differenze, sono quelle dove la coesione sociale, l’economia e il benessere della comunità crescono maggiormente. E noi vogliamo costruire una società più libera e inclusiva.
Ecco alcune delle nostre proposte:
Carlo Petrini
L’Italia è con il suo paesaggio, il suo clima e le sue terre, il paese che vanta la maggior biodiversità di colture e natura al mondo. Così come unico è il suo patrimonio enogastronomico e di tradizioni artigianali, di saperi e dialetti, di culture e bellezza. La cultura millenaria del nostro paese costituisce non solo un architrave del nostro stare insieme, ma la cifra di ciò che l’Italia può rappresentare per il mondo.
L’Italia possiede oltre 5.000 siti culturali tra musei, siti artistici e archeologici, 58 siti Unesco che interessano 406 comuni. Oltre 8.000 km di costa. In due terzi dei comuni italiani sono coltivati prodotti DOP o IGP: non c’è paese e in Europa e nel mondo che possa vantare anche solo la metà di questa eccellenza agroalimentare.
Il sistema produttivo culturale e creativo italiano genera oltre 90 miliardi di euro in via diretta, 250 nell’insieme, dando lavoro a oltre 1,5 milioni di persone. L’Italia investe però solo lo 0,4% del Pil in cultura, una percentuale più bassa rispetto ad altri grandi paesi europei.
Basti dire che oggi le meravigliose regioni del sud del nostro paese – con clima favorevole, patrimonio naturale, paesaggistico, e artistico straordinario, e con grandi energie creative giovanili, anche se spesso prive di opportunità – non raggiungono il 10% delle presenze turistiche in Italia. Secondo tutte le analisi e soggetti di ricerca, l’Italia non figura ai primi posti per attrattività e sviluppo di business per la qualità dell’ambiente e per la logistica per raggiungere le destinazioni turistiche; al contrario risulta ai primi posti per attrattività dei giacimenti artistici, per le tradizioni enogastronomiche e gli stili di vita.
Esiste poi un fenomeno di overtourism: una concentrazione di presenze in alcuni hub turistici italiani e città d’arte che non può essere soddisfatta in termini di offerta, mentre permane un patrimonio secondario ma straordinario ampiamente sottoutilizzato.
Nel 2019, quindi in tempi pre pandemici, il turismo contribuiva a generare, tra contributo diretto e indiretto, tra il 13% e 14% del Pil nazionale: quindi uno dei principali motori dell’economia.
Secondo l’Organizzazione Mondiale del Turismo, nel 2022 la ripresa per l’Italia ha raggiunto circa il 65% dei livelli pre Covid, in linea con la crescita europea. Nel 2019 l’Europa era la prima tra le macro aree mondiali per arrivi turistici internazionali ed entrate economiche derivanti: l’Italia era però abbondantemente alle spalle di Spagna e Francia.
La pandemia globale ha colpito al cuore il turismo. Ancora oggi il settore risente fortemente della crisi economica ed energetica, nonché della tragedia della guerra in Ucraina. Insieme all’importanza strategica del settore, queste crisi cumulate hanno anche evidenziato una volta di più fragilità dello stesso, altamente frammentato, interdipendente e articolato su un tessuto prevalente di piccole e medie imprese.
La destra al governo ha già dimostrato di non avere una strategia in proposito. La mancata realizzazione dei provvedimenti annunciati, le risorse insufficienti stanziate e i nodi ulteriormente rinviati rappresentano una pessima partenza. Il PD individua invece nella cultura e nel turismo, in crescente connessione tra loro, una delle industrie strategiche del Paese per generare crescita e occupazione. Occorre però una vera e propria politica industriale per i due settori, in grado di far crescere e qualificare la produzione e con essa la quantità e la qualità dell’occupazione.
Ecco alcune delle nostre proposte:
Franco Cassano
La questione meridionale è questione nazionale. E il PD intende promuovere una politica di sviluppo nazionale che abbia al centro il Sud per rendere l’Italia un Paese più forte, più giusto e più unito. Riprendere con forza il tema di una moderna politica per il Mezzogiorno significa riaffermare il carattere nazionale del PD, una ispirazione ideale irrinunciabile.
È necessario però un radicale cambio di approccio, che superi la logica del mero assistenzialismo, ma punti a creare sviluppo e ad assicurare pari opportunità, diritti, servizi a tutti i cittadini, in ogni territorio dell’Italia.
È la sfida che abbiamo iniziato ad affrontare ottenendo le risorse del Next Generation EU ed avviando l’attuazione del PNRR, con la clausola del 40%, quale soglia minima degli interventi da realizzare nel Sud: vigileremo su questo obiettivo cruciale e sull’effettivo impiego delle risorse, accanto all’impegno rigoroso per assicurare il vincolo di destinazione territoriale dei fondi per la coesione nazionali ed europei.
Valorizzeremo la Carta di Taranto come agenda della nostra politica per il sostegno al lavoro e agli investimenti pubblici e delle imprese, per offrire opportunità ai giovani e rilanciare i servizi territoriali.
Ecco alcune delle nostre proposte:
Adriano Olivetti
Un Paese scarsamente digitalizzato è un Paese ineguale. La mancanza di accesso adeguato al digitale e alle tecnologie innovative non è unicamente un danno alla competitività di un sistema economico, ma anche un elemento che accentua le diseguaglianze fra i cittadini. In un mondo altamente digitalizzato, cittadini che non hanno un adeguato accesso al digitale rischiano di rimanere isolati dalla società. Inoltre, al pari dell’istruzione pubblica, l’educazione al digitale per i cittadini rappresenta l’unica via percorribile per renderli capaci di muoversi in modo consapevole nel mondo di oggi, evitando di divenire facile preda di distorsioni quali quelle delle fake news e dalla disinformazione. Per queste ragioni il PD assume la sfida digitale come componente essenziale del proprio progetto democratico e di giustizia sociale.
È inoltre fondamentale ricordare che il digitale aumenta la competitività delle imprese: lo sviluppo di soluzioni innovative, unito al miglioramento dell’efficienza nella produzione generato dall’adozione tecnologica (come nel caso dell’automazione della produzione, o del monitoraggio nella catena logistica) facilitano un migliore posizionamento nelle catene globali del valore, favoriscono la nascita di nuovi lavori e il consolidarsi di una crescita duratura.
Una cittadinanza digitale consapevole deve tenere anche conto dei rischi che le nuove tecnologie introducono. L’enorme aumento di produzione di dati e di tracciamento dei cittadini e dei loro comportamenti porta con sé rischi profondi da un punto di vista etico, sociale e geopolitico. Risultano quantomai irrinunciabili e urgenti interventi che sappiano contrastare gli effetti del “capitalismo della sorveglianza”, e che restituiscano ai cittadini, alle aziende e alle istituzioni il controllo sui propri dati.
Anche l’utilizzo di nuove tecnologie come intelligenza artificiale, cloud, 5G, HPC, richiederà una sempre maggior attenzione al fine di tutelare la sovranità digitale europea, che non potrà che passare da un corretto trattamento, processamento e archiviazione dei dati di cittadini, aziende e istituzioni. I sempre più frequenti attacchi hacker subiti da aziende e istituzioni pubbliche evidenziano la nostra fragilità da un punto di vista di difesa cibernetica. Pertanto, le infrastrutture nazionali dovranno dotarsi dei più avanzati sistemi di difesa relativi alla cybersicurezza, e dovranno essere incentivate formazione e apprendimento relativi ai rischi di cyber-sicurezza per tutti i lavoratori e le lavoratrici, nonché per i singoli cittadini. Inoltre, occorrerà investire nella formazione di profili altamente qualificati, come gli esperti di analisi di dati e di cybersecurity.
Secondo il Digital Economy and Society Index (DESI), che determina il tasso di digitalizzazione di un paese, l’Italia si posiziona al 18° posto nella classifica europea, davanti unicamente a Repubblica Ceca, Cipro, Croazia, Ungheria, Slovacchia, Polonia, Grecia, Bulgaria, Romania. Esiste, pertanto, un grande lavoro da fare per concentrare risorse e investimenti necessari a colmare il gap che ci separa dai grandi paesi europei. Raggiungerli significherebbe aumentare la competitività del sistema Italia, garantire servizi della pubblica amministrazione più efficienti, e offrire strumenti maggiori ai cittadini per muoversi nel mondo globalizzato.
Consapevole della propria condizione di ritardo, attraverso il PNRR l’Italia ha destinato circa 48 miliardi di euro alla transizione digitale del Paese. Sarà fondamentale assicurare il completo utilizzo di tali risorse per compiere una profonda accelerazione sul tema.
Le tre aree di azione principali della nostra agenda politica in materia per i prossimi anni saranno:
In un mondo globalizzato, la cui velocità di interazione accelera sempre più rapidamente, non possedere una chiara strategia nel settore dell’innovazione e delle nuove tecnologie condannerebbe l’Italia a un ruolo subalterno. Il nostro Paese raccoglie uno straordinario numero di eccellenze tecnologiche e dell’innovazione all’interno delle nostre università, del tessuto produttivo, e dei nostri più avanzati centri di ricerca. Per questo possiamo e dobbiamo invece avere un progetto.
È inoltre fondamentale tenere conto del costante aumento dei giovani italiani che decidono di emigrare, portando con sé i loro talenti e la loro preparazione acquisita nelle nostre scuole e università: l’Istat stima che dal 2006 al 2015 il numero di italiani laureati che annualmente hanno scelto di abbandonare il nostro Paese sia triplicato. Inoltre, più alto è il titolo di studi, più è alta la percentuale di coloro che scelgono di andare all’estero. Innovazione e tecnologia si sposano da sempre con creatività e inventiva, che sono caratteristiche intrinseche al nostro essere italiani, ma la mancanza di una chiara strategia industriale su settori tecnologici e strategici per il nostro Paese, sta accentuando una già enorme emorragia di questi talenti, che vanno a rafforzare la competitività di altri paesi, indebolendo il nostro sistema economico. Serve una politica industriale che crei qui le condizioni di miglior impiego e valorizzazione dei talenti, trattenendoli e attraendone da fuori.
Un ulteriore punto di attenzione è quello relativo alle nuove aziende tecnologiche emergenti, che costituiscono la potenziale spina dorsale di un nuovo tessuto imprenditoriale in grado di generare lavoro buono e di qualità per le future generazioni. La nascita di tali aziende dipende da un insieme di fattori (di investimento, di formazione, di rapidità burocratica) che dovranno essere sostenuti e di cui il Partito Democratico vuole farsi promotore. Esistono inoltre settori tecnologici (quali intelligenza artificiale, big data, quantum computing, microelettronica, cloud, high performance computing), che si consolideranno nel prossimo decennio e su cui l’Italia dovrà farsi trovare pronta, sia per adeguare il proprio tessuto industriale alle nuove sfide, sia per favorire la nascita di nuove imprese, sia per investire e rafforzare le attività di ricerca in questi settori. Tali attività dovranno essere declinate specialmente in chiave di sostenibilità, per tutelare l’ambiente che ci circonda e favorire la nascita di soluzioni in grado di migliorare le condizioni del pianeta.
Tutte le trasformazioni distruggono e creano nuovi posti di lavoro: sostituire quelli obsoleti con nuova e buona occupazione in questo campo è una scelta di posizionamento strategico nella catena internazionale del valore.
Ecco le nostre proposte:
David Sassoli
Mi candido alla segreteria del Partito Democratico perché credo nella politica come strumento di partecipazione e di cambiamento. E perché credo nella sinistra come motore della giustizia sociale, del progresso economico e della libertà di tutte e di tutti.
È un impegno che prendo con la mia comunità politica: con le democratiche e i democratici che hanno fondato il PD; con coloro che c’erano e poi se ne sono andati perché delusi, ma che aspettano un cambiamento per tornare; con chi, nel frattempo, è arrivato e con chi potrebbe decidere di unirsi a noi, per la prima volta; con le nostre amministratrici e i nostri amministratori, che quotidianamente stanno sul territorio a contatto con le persone e i loro problemi, provando a dare le risposte che servono o quelle possibili. Prendo questo impegno con le volontarie e i volontari del nostro partito, perché non si sono mai arresi, nonostante tutto, e perché con la loro passione animano ogni giorno il Partito Democratico.
Questa è la nostra comunità, la nostra gente.
Faccio un passo avanti e chiedo a tutte e tutti di farlo insieme a me. Per rigenerare le energie che servono al nostro partito e al nostro Paese; per far vivere i nostri valori, le nostre idee e le nostre battaglie in questo tempo e in questa società; per rinnovarne i gruppi dirigenti e formarne di nuovi, guardando ai più giovani; per costruire, insieme a quanti vorranno starci, un nuovo centrosinistra più grande e più forte, capace di battere la destra nelle urne e di tornare al governo, la prossima volta, per migliorare davvero l’Italia.
È un impegno che insieme prendiamo con l’Italia e per l’Italia, con la nostra democrazia repubblicana nata dalla Resistenza antifascista e radicata nell’Unione europea: rispettando i nostri avversari politici, che hanno vinto le elezioni del settembre 2022, ma costruendo in Parlamento e nel Paese l’opposizione più ferma ed efficace ad una destra che continua a fomentare paure e divisioni, e che è incapace di garantire giustizia e coesione sociale, crescita economica e tutela dell’ambiente, diritti e libertà per tutte e tutti.
All’Italia serve adesso un’opposizione forte e rigorosa, che sappia incalzare la destra rispetto alle sue contraddizioni e ai suoi errori; un’opposizione seria e costruttiva, che lavori sempre per migliorare e mai per distruggere, che ad ogni No sappia sempre affiancare una controproposta migliore; un’opposizione popolare, che stia tra le persone per ascoltare e confrontarsi, e per permettere alle elettrici e agli elettori, la prossima volta, di dare fiducia ad un’alternativa chiara e migliore.
Questo è il nostro obiettivo: tornare a governare, senza scorciatoie e sulla base di un chiaro e forte mandato popolare.
Rimbocchiamoci le maniche e lavoriamo per essere all’altezza di questa sfida. Torniamo a fare fino in fondo il Partito Democratico.